13 Dicembre 2025

ESCLUSIVA PSB – Cané: “A Bari sono stato benissimo, ma non volevo lasciare Napoli. Ecco perché i tifosi non amano i De Laurentiis”

La leggenda brasiliana in esclusiva ai nostri microfoni

Introdurre vuol dire presentare, ed è un esercizio davvero difficile poter accogliere agli occhi della platea chi non ha bisogno di alcuna forma di annuncio. Jarbas Faustinho forse dirà poco, ma Cané dirà invece tanto in appena quattro lettere, ed è per questo che l’impetuosità di una simile storia fatta uomo non va confinata con le parole, ma lasciata sgorgare per abbeverare chi cerca nel calcio un’epica che, probabilmente, i tempi moderni hanno più o meno consapevolmente accantonato per dare spazio all’imperturbabilità della perfezione. Brasiliano di nascita e talento, napoletano di adozione, Cané è oggi la bocca di un mondo che è finito sui libri, ma che lui ha vissuto, attraversato e modellato nelle occasioni in cui è stato protagonista degli eventi. A 86 anni non c’è una mattina in cui non lo si veda passeggiare per la sua camminata sportiva, e questa lucidità fisica è accompagnata da una limpidezza nei racconti che non può che sembrare una macchina del tempo. Nella sua vita lunga e larga, c’è stato anche spazio per un triennio in quel di Bari, che il diretto interessato ha raccontato in esclusiva ai nostri microfoni.

Faustinho, sono passati tanti anni dalla sua esperienza in quel di Bari. Che ricordi ha di quell’esperienza e di quella città?

“La genesi di quella tappa della mia vita fu decisamente negativa. Ero in aereo quando mi fu comunicata la cessione. Stavo tornando dal Brasile, fu scioccante. In quel periodo il mio ginocchio non stava benissimo, eppure giocai tutte le partite. Desideravo firmare il prolungamento di contratto prima di partire, ma l’allenatore e il presidente Ferlaino mi dissero di stare tranquillo e di partire per sottopormi alle cure del caso. Durante il viaggio di ritorno, come dicevo poc’anzi, un membro dell’equipaggio di bordo, il cui zio, tra l’altro, era amico di Roberto Fiore (ex presidente del Napoli, ndr) e Pesaola, mi riconobbe e mi portò un giornale con la notizia. Rimasi di stucco, mi si raggelò il sangue. Una volta a Napoli, dissi che a Bari non sarei andato, ma all’epoca non era possibile rifiutare una destinazione, e di conseguenza l’operazione fu conclusa. C’è un aneddoto alla base di tutto: Oronzo Pugliese, all’epoca allenatore del Bari, chiese Harald Nielsen, reduce da una stagione proprio con il Napoli, ma quest’ultimo disse che se la cosa fosse andata avanti lui sarebbe tornato in Danimarca e non avrebbe più giocato a calcio. Fu una posizione legittima da parte sua, ma dopo aver virato su di me, avrei probabilmente meritato maggiore considerazione. Detto ciò, non partii per il ritiro, mi allenai da solo a Massa Lubrense, grazie alla disponibilità di amici di famiglia, per oltre dieci giorni. In questo momento di impasse ci fu l’accelerata decisiva: ebbi importanti garanzie economiche, desideravo chiaramente rimettere rapidamente piede in campo, come ho poc’anzi detto avevo inoltre poco margine per oppormi, e quindi il tutto divenne ufficiale. In maniera tumultuosa è dunque cominciata la mia storia con il Bari”.

Come andò in termini sportivi?

“Il primo anno le cose andarono benissimo. A novembre eravamo terzi o quarti, ma l’allenatore Pugliese aveva problemi con la stampa, in particolar modo con il Corriere dello Sport, il cui direttore dell’epoca non faceva altro che attaccarlo. A un certo punto il tecnico fu mandato via e ci fu una caduta libera fino alla Serie B. In cadetteria arrivammo agli spareggi con Atalanta e Catanzaro. Eravamo senza alcun dubbio la più forte delle tre, ma non riuscimmo a risalire subito in A. Il terzo anno, durante l’estate, ebbi modo di parlare con Vinicio, gli dissi del mio desiderio di tornare a Napoli e della mancata opposizione che avrebbe fatto il Bari. Tutto sembrava fatto, il vicepresidente del Napoli, l’avvocato Russo, organizzò una cena con me e Ferlaino per definire il ritorno. Andai a Milano proprio con l’avvocato: il mercato chiudeva il sabato a mezzanotte, e alle 19 mi fu detto di poter partire per Napoli perché era tutto fatto. Sbagliai, sarei dovuto partire domenica mattina. Torno, e proprio domenica mattina vado a Ischia con la famiglia. Accendo la televisione, il telegiornale esordisce con ciò che non avrei voluto vedere né sentire: la trattativa era saltata. Il lunedì andai in sede, che all’epoca si trovava a Via Petrarca, nel palazzo del presidente Ferlaino, e gliene dissi di tutti i colori. Vinicio cercò di intermediare, emerse la possibilità di firmare a novembre, ma non volevo stare fermo, dunque accettai un contratto a gettone. In quegli anni giocammo un calcio magnifico, rischiammo di vincere il campionato, poi arrivò questa proposta dal Canada: all’epoca il campionato locale valeva più o meno la nostra Serie C, ma avevo intenzione di fare l’allenatore-giocatore, dato che il mio desiderio era quello di allenare una volta appese le scarpette al chiodo, percorso che poi ho fatto dopo i due anni lì”.

Come ci ha avuto modo di raccontare, la sua storia con il Bari non è nata nei migliori dei modi. Una volta arrivato lì, che rapporto ha avuto con la piazza?

“Sono stato benissimo, ho ancora rapporti con la città. Racconto una storia molto simpatica: ho battezzato il figlio di Pasquale Loseto, mio compagno di squadra in quegli anni. Bravo ragazzo, lo seguo ancora su Facebook, ricordo una partita dove marcò molto bene Riva, pareggiammo e si esaltò al massimo. Il primo anno, tra l’altro, andammo in tournée in America, dove giocammo contro squadre inglesi e tedesche. Dopo la terza stagione decisi di andare via, in virtù di quella conversazione con Vinicio di cui ho già parlato. La gente mi apprezzava, ero nel pieno della mia forma, anche se ebbi purtroppo uno strappo abbastanza serio alla fine del secondo anno. L’idea era quella di operarmi, mi portarono sia a Coverciano che a Roma, ma io mi opposi e aspettai cinque mesi per il rientro”.

Uno dei giornalisti più importanti nella storia del Bari, il compianto Gianni Antonucci, di lei scrisse “l’attaccante di cui si diceva che a Rio de Janeiro giocasse 4 partite in 2 giorni”. Era davvero in grado di fare ciò?

“All’epoca giocavamo scalzi fino ai 12-14 anni. C’erano i tornei delle varie zone di appartenenza: la mattina partecipavamo a quelli in cui si giocava per l’appunto scalzi, mentre il pomeriggio c’erano quelli con le scarpette. Dunque sì, è vero. Erano momenti favolosi”.

Oggi alle redini del club c’è Luigi De Laurentiis, con inevitabili collegamenti con il Napoli e il padre Aurelio. Napoli è stata l’altra grande parte della sua vita e carriera. Che opinione ha delle capacità gestionale di questa famiglia, che proprio a Bari è stata spesso criticata nel recente passato?

“Ora non mi fanno più parlare, ma quando venivo interpellato ero solito criticare Aurelio. Mio padre era un piccolo costruttore, ma io mai mi sarei sognato di scendere in piazza e cominciare a costruire. Ecco, De Laurentiis ha fatto questo: veniva dal cinema e, consigliato da amici, in primis da Roberto Fiore, ha rilevato il Napoli con i giusti accordi. L’ho sempre definito un uomo nato con la spilla, perché ha rapidamente cominciato a dimostrare di avere ciò che serve nel calcio e nella vita: tanta fortuna e tanti soldi. Mi soffermerei soprattutto sulla sua fortuna calcistica, che era immensa e lo è ancora oggi. Tornando a Bari, come tutti sappiamo è ancora vigente il tema della multiproprietà, in virtù del quale la famiglia De Laurentiis non potrà avere due squadre in Serie A contemporaneamente. Quella pugliese è una piazza importantissima, per me la principale del Sud proprio dopo Napoli, parliamo di una realtà che ha ospitato i Mondiali. Qual è stato, però, l’effetto di questa situazione imprenditoriale? Che Aurelio abbia trovato lavoro per il figlio, ma senza poter andare in Serie A. Che interesse ha, dunque, nel dare una prospettiva? Il pubblico di Bari, secondo me, è chiaro che non perdoni una dinamica del genere. I tifosi sono giustamente infastiditi”.

Mi conceda di chiudere con un aneddoto: è vero che Achille Lauro era così calcisticamente innamorato di lei da acquistare il suo cartellino senza comunicarlo all’allenatore Pesaola e al Direttore Tecnico Monzeglio?

“Assolutamente no. A quei tempi non c’erano i procuratori, o meglio si chiamavano impresari, ed erano coloro che portavano le squadre e i calciatori brasiliani in giro per l’Europa. Giocavo nell’Olaria, in Serie A, e segnavo tanti gol, ma chiaramente non c’era internet né alcun altro tipo di strumento di comunicazione che non fosse il giornale. Arrivai a Napoli così, non fu dunque un’iniziativa del solo Achille Lauro, e subito captai la grande chimica con un popolo che aveva tanto di carioca. Gente giocosa, allegra, spiritosa. Proprio Achille Lauro fece una battuta che diventò celebre: disse di aver visto sui giornali delle foto di vari calciatori brasiliani e di aver scelto me perché, essendo il più brutto, avrei potuto far paura agli avversari. Accettai lo scherzo di buon gusto, anche a me piace prendere in giro”.

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