31 Dicembre 2020

Essere Mario Balotelli

Nel 2013 il Time, noto magazine statunitense, come ogni anno pubblicò la lista delle cento persone più influenti al mondo. Due gli italiani presenti: Mario Draghi, all’epoca presidente della Banca Centrale Europea, e Mario Balotelli, professione calciatore (in quegli anni del Milan, essendo arrivato proprio nel gennaio 2013 dal Manchester City). Questo incipit aiuta a […]

Nel 2013 il Time, noto magazine statunitense, come ogni anno pubblicò la lista delle cento persone più influenti al mondo. Due gli italiani presenti: Mario Draghi, all’epoca presidente della Banca Centrale Europea, e Mario Balotelli, professione calciatore (in quegli anni del Milan, essendo arrivato proprio nel gennaio 2013 dal Manchester City). Questo incipit aiuta a comprendere quale fosse la dimensione del ragazzo all’epoca. Cosa implica un simile status? Notorietà, visibilità, ritorni economici e un’attenzione con la quale bisogna convivere. Quest’ultimo punto genera tante, ramificate, pressioni. Ogni gesto, quando si possono influenzare milioni di persone, va pesato, dosato, edulcorato.

Quanto detto può e deve sembrare ovvio. Ciò che non è scontato è la convivenza con tali fattispecie. Siamo così sicuri che simili “premi” e responsabilità siano gestibili basandosi sulla esclusiva consapevolezza che giocare a calcio (per restare in tema) sia un privilegio e come tale vada accettato anche nei giorni di pioggia interiori? Siamo ugualmente sicuri che ogni “eletto”, selezionato nella lotteria della vita quando vengono distribuiti i talenti, debba obbligatoriamente automatizzare le proprie giornate in relazione a ciò che si rappresenta, che supera ciò che si è? Ancora: un bipede (poco) senziente decide di pigiare il tasto invettiva, ha mai fermato il tempo per qualche secondo e analizzato le proprie giovanili azioni?

Prima di eventuali J’accuse all’autore dell’articolo, è gentilmente richiesto un ulteriore round: è legittimo ponderare. Un uomo comune non ha alcuna posizione da considerare e quindi è esonerato da eccessive responsabilità (ma questa è becera banalizzazione), un calciatore di fama mondiale è chiamato ad aggiungere un tassello e accettare, come detto in apertura, ciò che si rappresenta. Logico, probabilmente doveroso. Il punto è un altro: con Balotelli, caso più attuale di un gruppo di atleti che anche in passato animava dibattiti più o meno civili, lo step che non viene fatto, questa volta, dagli uomini comuni è la miopia palesata nell’empatia che non deve mancare e che troppo spesso viene vessata o non considerata. A Mario non viene più concesso (o forse non lo è mai stato) di sbagliare. L’ha fatto, ha peccato, ma esiste un puro tra gli umani? Nonostante l’assimilazione della propria condizione, è davvero corretto ritenere che la condizione economica non possa occasionalmente comportare l’omologazione emozionale?

I primi anni di Balotelli, su questo il margine di discussione è ragionevolmente ridotto all’osso, ne hanno condizionato eccessivamente il futuro. La fama, le reti con l’Inter, la Champions League, il famoso gesto della maglietta contro il Barcellona, le discussioni. Elementi più o meno positivi che ancora oggi tormentano ogni singola, minima, impercettibile azione del classe ’90. Gesti che continua a pagare nella precarietà dell’altrui opinione ma per i quali ha chiesto scusa (all’epoca e poco tempo fa), come ogni persona sa che bisogna fare. A lui non è bastato, lui è Supermario, non ha mai potuto beneficiare dell’errore.

Mario è diventato uno straordinario caso di capro espiatorio: bisognava tirarlo in ballo al minimo episodio per mascherare colpe o lacune. Con lui diventò un caso anche uno scambio di magliette. I riferimenti possibili sarebbero tanti altri e, precisando che Balotelli non abbia alcun bisogno di essere difeso dato che ha spalle abbastanza larghe, la ribadita volontà è quella di domandare perché sia costantemente il riferimento di offese di cattivo gusto. La sensazione di chi scrive è che Mario si sia ritrovato in un contesto senza averlo chiesto, con le susseguenti difficoltà gestionali per lui e la facilità di affronto per gli altri. Da questa percezione nasce una simpatia nell’etimologico significato greco del termine, ovvero la volontà di condividere emozioni, tra cui non possono essere escluse ansia, sofferenza, angoscia. Quelle che Mario avrà provato nei giorni più bui, quando non riceveva le risposte che cercava, quando non trovava squadra ma anche, se non soprattutto, quando le squadra c’erano, magari tra le prime al mondo, e lui veniva attaccato come la fonte di qualsiasi problema. Denigrazioni, quelle che ha subito, umane e non tecniche.

Punto, questo, importante: il calciatore Mario Balotelli può non piacere. È legittimo e deve essere così, sarebbe tremendamente noioso condividere ogni tipologia di giudizio tecnico. La questione, però, in questo caso torna sul filo conduttore dell’articolo: gli addebiti consegnati a Balotelli non sono quasi mai stati calcistici ma umani, attitudinali, comportamentali. I social pullulano di dimostrazioni. Dubitando della carineria e dell’onestà intellettuale insite in un “non sa giocare a calcio“, come capita di leggere, si tocca con mano la volontà di ledere l’uomo e non di argomentare questioni riguardanti il calciatore. Si cerca più o meno consapevolmente di colpevolizzarlo per non aver consolidato i propri inizi, come se fosse un copione già scritto, come se non fosse possibile non essere un fenomeno, come se non esistesse la personalità. La gente voleva che Mario diventasse un automa o forse, più semplicemente, pretendeva che restasse al vertice. Mario il vertice l’ha conosciuto, l’ha meritato (perché più di 150 gol con i club e 14 con la Nazionale, di cui appena tre in varie amichevoli e undici in partite ufficiali, vuol dire che Balotelli a calcio sa giocare, piaccia o meno) e l’ha lasciato. Per errori, per scelte, per una parolina che andrebbe rispettata: percorso.

Con certosina e camaleontica precisione e dedizione, bisognerebbe provare, per pochi secondi, ad accettare Mario Balotelli, abbandonando così la presunzione di ritenere di avere gli strumenti etici per biasimarne passato, presente e futuro. Si scoprirebbe un ottimo calciatore, con determinate caratteristiche più o meno apprezzabili (perché, ennesima ripetizione, il calcio fortunatamente non è una scienza e non esiste unicità di pensiero) e tanto ancora da poter dare. Al Monza, dov’è approdato per rimettersi in gioco e dove, dopo quattro minuti, ha dimostrato di voler ricominciare. Rispettiamo l’uomo, analizziamo il calciatore, onoriamo il calcio. E nient’altro.

Foto AC MONZA